Terre espropriate, interi villaggi cacciati e habitat distrutti: è il volto (nascosto) del land grabbing, l’accaparramento delle terre per profitto e turismo
di Michele Razzetti (da Vanity Fair del 02.02.2022)
La professoressa Grillotti Di Giacomo ripete spesso l’aggettivo «scandaloso» mentre ci parla dell’accaparramento delle terre, in inglese land grabbing. Un fenomeno complesso, di cui si discute incredibilmente poco, «una guerra mai dichiarata, subdola, che si sta realizzando nel completo silenzio», ci dice.
In poche parole (semplificate) si parla di land grabbing quando intere comunità vengono espropriate – in genere dal proprio governo – della terra in cui vivono, che viene venduta a quattro tipologie di acquirenti: governi di altri paesi, società private, fondi di investimento e singoli paperoni (che secondo l’ultimo rapporto Oxfam hanno aumentato esponenzialmente i propri patrimoni nel periodo pandemico).
Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, in passato professoressa di Geografia alla Sapienza e a Roma Tre, è presidente di GeCoAgri-Landitaly e curatrice insieme a Pierluigi De Felice de «I predatori della terra» (FrancoAngeli); a lei abbiamo chiesto di farci capire che cosa implica il land grabbing, soprattutto quando a perpetrarlo è l’industria del turismo.
«Chiariamoci, non si tratta di un fenomeno nuovo: in forme diverse c’è stato in tutta la storia dell’umanità, in particolare nei periodi segnati da una profonda crisi economica. E così con l’ultima crisi economica globale, quella dell’inizio del Terzo Millennio, è riesploso scandalosamente, con forme inedite».
Una delle motivazioni per cui le realtà investitrici (così sono definite nei documenti internazionali) predano terre in altri stati è legata – solo apparentemente secondo Grillotti – alla sostenibilità ambientale. Buona parte della nuova corsa al land grabbing pare sia iniziata con il Protocollo di Kyoto «che ha introdotto i cosiddetti carbon credit, attraverso i quali alcune aziende e stati possono acquisire il diritto di emettere più CO2 di quella consentita dal contesto in cui operano, a patto che in altre regioni del pianeta effettuino una cosiddetta compensazione». Cosa significa? Che in questi altri Paesi dovrebbero avviare iniziative che permettano di bilanciare la CO2 in più che emettono a casa propria, come può essere, ad esempio, una riforestazione fatta in modo oculato.
Peccato, però, che le terre acquisite da queste realtà pubbliche e private «nell’82% dei casi siano lasciate incolte. In alcuni casi, la percentuale di terre destinate alla coltivazione non arriva all’1%; si tratta quindi di una missione di sostenibilità molto farisaica». E anche quei pochi ettari che vengono destinati alla coltivazione sono in realtà gestiti con dinamiche «tipiche dell’economia di piantagione, che è quella che desertifica di più e accelera i cambiamenti climatici e mina la biodiversità».
Parte delle terre predate con il land grabbing sono poi destinate alla produzione di biomasse, anche qui con fenomeni paradossali. «In tantissimi casi, il più scandaloso è quello della Tanzania, i campi vengono inseminati, ma non avviene poi la raccolta perché i costi del trasporto e della trasformazione in biocombustibili sarebbero superiori al ricavo».
La predazione delle terre interessa comprensibilmente anche terre strategiche, spesso ricche di acque o di minerali. «La Cina è il paese che sta investendo di più nel land grabbing e lo fa nelle aree costiere dell’Africa orientale, dove sta creando porti per permettere alle sue merci di fare il loro tragitto verso l’Europa».
In generale, Grillotti ci spiega che «il fine ultimo del land grabbing è quello di mettere capitali enormi in un bene immobile, che da sempre per eccellenza è la terra, consentendo così di conservare il valore dei capitali investiti e puntando al contempo alla crescita del valore delle terre».
Un villaggio per un villaggio turistico
Tra i vari fini commerciali dell’accaparramento delle terre c’è anche quello turistico. Grandi realtà, in questo casi prevalentemente private, cercano luoghi paradisiaci in cui creare strutture alberghiere, spesso di lusso, quasi sempre dall’impatto sociale e ambientale devastante.
Un esempio eloquente, denunciato dalla stessa ONU, è quello di Mandalika, sull’isola indonesiana di Lombok. Qui per far spazio a resort e a un circuito di Formula Uno, «agricoltori e pescatori sono stati cacciati dalle terre e dalle rive, e case, campi, sorgenti d’acqua e perfino i siti culturali sono stati distrutti per realizzare questo progetto. Sono stati investiti tre miliardi di dollari, con un impatto ambientale devastante».
Il land grabbing a scopo turistico viola doppiamente le terre in cui avviene perché non solo caccia le popolazioni indigene, «ma innesta un modello di comportamento, di sfruttamento, totalmente estraneo al territorio».
A essere predate in questo caso sono solo le zone paesaggisticamente più belle: non sorprende così che percentualmente questo tipo di accaparramento sia minoritario. Si parla di qualche centinaia di migliaia di ettari, a fronte di svariate centinaia di milioni di ettari per il fenomeno nella sua interezza. Per avere qualche dato quantitativa è possibile consultare Land Matrix.
Nella maggior parte dei casi interessa le isole e le nazioni in cui si verifica maggiormente si trovano in Asia e Africa e includono Cambogia, Tanzania, Etiopia, Sri Lanka, e Laos (ma anche in America, Honduras e Argentina).
Una matrioska infinita di attori
Una matrioska infinita, dove non si arriva mai al nocciolo della questione, è un’immagine che rende bene l’intrico di interessi e responsabilità che sta dietro chi investe in questo fenomeno. «In diversi casi questi attori si intrecciano in una matassa che di proposito è impossibile da dipanare; è tracciabile solo analizzando i flussi di investimenti finanziari. Nei documenti internazionali si parla di Paesi investitori, che dovrebbero portare interesse, e di Paesi target, quelli oggetto di queste operazioni. Noi abbiamo condotto un’analisi delle transazioni e codificato una terza categoria: i Paesi ombra, cioè quelli che offrono una base logistica alle realtà che predano».
Attenzione, perché in questa narrazione i «cattivi» non sono solo i Paesi che comprano le terre; parte della responsabilità è da attribuire ai governi dei paesi venditori, che il più delle volte sono totalitari o corrotti. «Le popolazioni dei villaggi vengono scacciate con leggi ad hoc, nonostante usassero quelle terre da secoli per motivi di sussistenza, per cibarsi e sopravvivere. Una volta liberate, le terre vengono vendute ma il ricavato se lo mette in tasca il governo: è un’espropriazione vera e propria».
L’ONU senza troppi giri di parole ha definito questo fenomeno una forma di neocolonialismo che tuttavia si verifica con una dinamica peculiare. «Non si tratta di una conquista politico militare: è un accaparramento di risorse naturali del pianeta, il contrario della sostenibilità».
Dal land grabbing scaturiscono fame e migrazioni forzate in grado compromettere la sopravvivenza di intere comunità indigene, in alcuni casi convinte ad andarsene con la promessa, non sempre mantenuta, di infrastrutture e scuole, oppure con il miraggio di un’occupazione. Purtroppo, troppo spesso rimangono promesse e miraggi. Ed è pensando a fenomeni predatori come questo che risuona nella mente Gandhi, secondo cui «la Terra fornisce abbastanza risorse per soddisfare i bisogni di ogni uomo, ma non l’avidità di ogni uomo».